Si può affermare che l’implantologia dentale, quella moderna ed efficace, appartiene a due grandi scuole:
- la scuola italiana, nata negli anni ‘60 e di cui Stefano Tramonte fu il capostipite.
- la scuola svedese, ideata successivamente da Brånemark.
La storia e l’evoluzione di queste due scuole sono molto diverse: l’implantologia di scuola italiana ha preceduto
di circa 30 anni quella di scuola svedese, ha introdotto tutti i principi e le tecniche alla base della moderna implantologia
e ha perfezionato nel corso dei decenni i propri protocolli, con un’attenzione totalmente rivolta all’efficienza e al benessere
dei pazienti.
La scuola svedese ha tracciato una propria metodologia, partendo da considerazioni e visioni proprie,
ma nel corso degli anni si è via via avvicinata sempre più ai metodi e ai paradigmi dell’implantologia italiana, abbandonando quasi del tutto i propri.
Oggi, infatti, tutta la moderna implantologia si rifà a concetti elaborati e sviluppati dalla scuola italiana, che sono
diventati i fondamenti dell’implantologia mondiale. Tra questi, i più importanti sono i seguenti.
L’implantologia di scuola italiana ha introdotto il titanio.
Il titanio è un materiale altamente biocompatibile, che assicura agli impianti resistenza e funzionalità. Il primo a pensare
di utilizzare il titanio per la realizzazione degli impianti da inserire nell’osso dei pazienti fu proprio uno dei pionieri
dell’implantologia italiana, il professor Stefano Tramonte (il padre del dottor Silvano Tramonte, figura di riferimento
e fondatore dei Centri Implantologici Tramonte) più di sessant’anni fa.
L’implantologia di scuola italiana ha introdotto il carico immediato.
Nel 1959, il professor Stefano Tramonte, allora giovane medico, che poi sarebbe diventato famoso in tutto il mondo,
realizzò e testò con grande successo i suoi primi impianti che, nonostante gli inadeguati mezzi di allora,
l’assenza di strumenti dedicati e la mancanza di sterilità dei processi di produzione, gli consentirono di ottenere
una perfetta osteointegrazione (cioè l’integrazione tra l’impianto e l’osso), addirittura quindici anni prima che si definisse
e descrivesse il processo di osteointegrazione. Il professor Tramonte realizzò un impianto totalmente adeguato all’osso:
un impianto obbligatoriamente a carico immediato poiché il corpo implantare collocato nell’osso era – com’è ancora oggi –
un tutt’uno con il moncone su cui veniva posizionata la protesi, cioè il dente, (di qui la definizione di impianti monoblocco).
L’implantologia a carico immediato si è affermata negli anni grazie ai vantaggi e ai benefici che la caratterizzano.
L’implantologia di scuola italiana ha introdotto l’area di rispetto biologico.
Già allora, il professor Stefano Tramonte interpretò immediatamente, con grande intuizione clinica, che il moncone (la parte superiore dell’impianto) doveva essere separato dalla parte spiralata del corpo endosseo (la parte a vite dell’impianto)
e che la connessione tra parte spiralata e moncone dovesse essere costituita da un collo liscio e di diametro ridotto
per garantire il minimo insulto biologico ai tessuti, osseo e mucoso, che circondavano l’emergenza dell’impianto
e che tra il punto di emergenza dell’impianto dall’osso e la base del moncone era necessario uno spazio libero dedicato
alla cicatrizzazione mucosa e alla realizzazione di qualcosa che sostituisse l’adesione della mucosa alla radice del dente:
questo spazio libero costituisce l’area di rispetto biologico.
In mancanza di quest’area di rispetto biologico, l’osso comincia a ritirarsi innescando processi di retrazione ossea iatrogena
(che all’epoca i medici che non appartenenti alla scuola italiana definivano, con una certa ipocrisia, “retrazione fisiologica dell’osso”). Negli impianti di scuola svedese l’area di rispetto biologico comparve con una ventina d’anni di ritardo,
tanto che gli impianti inseriti secondo quella metodologia erano definiti sommersi, o bifasici, poiché venivano inseriti
in due fasi: una prima fase chirurgica, in cui si inseriva il corpo implantare e si sommergeva sotto la gengiva (in attesa del
processo di osteointegrazione), e a distanza di qualche mese una seconda fase chirurgica mirata a disseppellire il corpo
implantare per collegarvici un moncone che avrebbe retto la parte protesica (il dente).
L’implantologia di scuola italiana ha introdotto l’inserimento flapless (senza tagliare la gengiva).
Sin dall’anno 1959, la differenza tra le due scuole di implantologia era marcata: l’implantologia italiana nacque al letto
del paziente, quella svedese in laboratorio.
La prima doveva rispondere alle esigenze del paziente: - denti subito, dunque carico immediato.
- nessuna chirurgia.
- massima efficacia.
- massima semplicità.
- niente dolore e costi ridotti.
La seconda doveva rispondere alle esigenze protocollari della ricerca e quando si trovò faccia a faccia coi pazienti scoprì
di avere tanti problemi. Problemi che, invece di risolvere, scaricò sui pazienti pretendendo che fossero loro ad adattarsi.
A quel tempo non vi erano strumenti dedicati, l’impianto doveva essere inserito con quello che c’era già disponibile,
i mezzi per garantire la sterilità erano assai limitati e l’igiene orale lasciava molto a desiderare.
In queste condizioni meno si tagliava un paziente e meno probabilità ci sarebbero state di infettare la ferita.
Per questo, i pionieri della scuola italiana realizzavano interventi di implantologia senza tagliare la gengiva e senza scollarla dall’osso, così che il recupero post-operatorio fosse anche più sopportabile e scevro da complicanze.
Oggi il post-operatorio senza aprire il lembo è un intervento ricercato da quasi tutti gli implantologi e per tutte le tecniche
o i modelli di impianti. Va da sé che con gli impianti italiani, che sono più rispettosi, biocompatibili e con protocolli propri e perfezionati in 60 anni di attività pratica, il post-operatorio ha maggior successo, anche a lungo temine.
Il record di permanenza in bocca in funzione appartiene, di fatti, a un impianto Tramonte: 50 anni documentati!
L’implantologia di scuola italiana ha introdotto “l’all on four” e “l’all on six”.
All’inizio degli anni ‘50, il dottor Manlio Formiggini introdusse la tecnica che oggi viene chiamata “all on four”, che prevede
di ricostruire un’arcata dentale completa sorretta da quattro impianti, e 10 anni dopo il dottor Stefano Tramonte protocollò
la tecnica “all on six”, che ricostruisce un’arcata completa su 6 impianti. Ma tali configurazioni non garantivano la massima
durata possibile, così il dottor Giordano Muratori introdusse l’isotopia, che prevedeva che si inserisse un impianto per ogni dente. Questa configurazione è quella che più garantisce al paziente che il suo intervento chirurgico non debba essere rifatto e possa durare tutta la vita. Questo è tanto più vero quanto più estese sono le riabilitazioni.
L’implantologia di scuola italiana ha introdotto gli impianti inclinati.
La ricerca in campo implantologico ha dimostrato che gli impianti non devono necessariamente essere inseriti verticalmente in bella linea, ma possono essere inseriti inclinati e angolati per aumentare le possibili soluzioni. La scuola italiana ha
cominciato già dai primi anni della sua applicazione a inclinare gli impianti in modo da sfruttare l’osso del paziente
il più possibile e costruire strutture più efficaci nel distribuire i carichi. Oggi anche le tecniche chirurgiche della scuola svedese per l’inserimento degli impianti sono state modificate.
L’implantologia di scuola italiana ha introdotto la saldatrice endorale.
Nel 1978, il prof. Pier Luigi Mondani ha inventato una macchina che consente di solidarizzare tra loro gli impianti appena
inseriti per diminuire i micromovimenti che portano all’insuccesso nella fase di guarigione. Adottata da subito dall’implantologia italiana, da diversi anni viene utilizzata anche dalla scuola svedese per unire i pilastri implantari e consentire anche agli impianti bifasici il carico immediato.
Per approfondire: implantologia elettrosaldata.
L’implantologia di scuola italiana ha introdotto le guide chirurgiche.
Le guide chirurgiche furono inizialmente introdotte nell’implantologia di scuola italiana dal dottor Stefano Tramonte.
In seguito, furono abbandonate insieme al criterio del parallelismo implantare, per la troppa complessità, per i troppi
interventi necessari e per la mancanza di affidabilità in interventi in cui era necessaria la massima precisione,
più facilmente ottenibile a mano libera da un operatore esperto.
Gli impianti di scuola svedese sono più problematici nel loro inserimento poiché hanno la connessione protesica
e, per questo, generose dimensioni di emergenza che richiedono, ai più, un aiuto per l’esecuzione adeguata.
Con l’introduzione del carico immediato nell’implantologia di scuola svedese si sono rese ancor più necessarie per questi
impianti le guide chirurgiche, che oggi vengono realizzate con tecnologia informatica: implantologia computer-guidata.
Tale tecnologia mette anche i meno esperti in grado di effettuare interventi di una certa difficoltà con sufficiente precisione. Restano tuttavia fondamentali la competenza, la capacità e l’esperienza dell’implantologo: nei Centri Implantologici Tramonte spesso i pazienti che vengono trattatati sono quelli a cui stranamente è stata negata la possibilità di intervento in altri studi,
presumibilmente dove l’esperto non era esperto o l’esperto usava solo il computer.
L’implantologia di scuola italiana ha introdotto le tecniche mininvasive.
Il motto “grande taglio, grande chirurgo” non è mai stato sposato dalla scuola italiana, anzi, la scuola italiana è nata
con un forte rispetto dei pazienti, portata a ciò dalla sua stessa natura, dalle richieste dei pazienti e dalla natura del rapporto odontoiatra-paziente, e ha sempre cercato di attenersi al criterio di ottenere il massimo effetto col minimo intervento.
Se la chirurgia è il fallimento della medicina (e lo è), allora il medico dovrebbe tendere a utilizzare meno chirurgia possibile. Prima di tutto curare e prevenire e poi, se proprio si deve fare un intervento chirurgico, allora che sia meno invasivo possibile. La scuola italiana continua ad applicare i suoi principi e protocolli di minimo intervento – ed è quasi sempre possibile e sulla maggior parte dei pazienti, che si sorprendono di come possano essere inseriti anche 14 impianti in una sola seduta chirurgica senza tagli, senza dolore e senza gonfiore post-operatori.
Tutto ciò è tipico della scuola italiana, in assoluto la più rispettosa dei tessuti del paziente (gengiva e osso), potendo usare impianti molto maneggevoli e tecniche speciali che si adattano facilmente a qualunque condizione anatomica (osso di scarsa qualità, osso scarso, creste troppo sottili, grandi atrofie, ecc…) o patologica (malattie generali) concomitante, contrariamente alla scuola svedese che è obbligata a utilizzare impianti poco maneggevoli, che pretendono che sia l’osso del paziente
a doversi adattare con interventi di chirurgia ricostruttiva sia della parte ossea sia della parte gengivale.
L’implantologia di scuola italiana garantisce quindi interventi più rispettosi e delicati, pur con range di successo sovrapponibili nel breve periodo e migliori nel medio e lungo periodo. I vantaggi dell’implantologia italiana sono nella sua semplicità,
nell’assenza di chirurgia, nel carico immediato sempre, nella limitatezza dei costi biologici ed economici e nel basso impatto biologico. Purtroppo non si può eseguire sempre, ci sono casi, pochi, in cui l’indicazione d’elezione è per impianti di scuola svedese, ma nell’85% dei casi l’implantologia di scuola italiana rappresenta la migliore opzione per il paziente